Arthur Rimbaud: adolescence prima di Adolescence
- Anna di Cagno
- 7 apr
- Tempo di lettura: 3 min
Prima dei coming of age cinematografici, prima delle serie tv che cercano di raccontare il disagio giovanile col filtro grunge e la musica lo-fi, c’è stato lui: Arthur Rimbaud, “il più bello degli angeli ribelli” come l’ha definito sua maestà del rock e della poesia contemporanea, Patti Smith.
E chi, meglio di lei, poteva riconoscere un’icona punk avant la lettre? È proprio quel misto di grazia e rivolta a renderlo eterno, la sua bellezza eccessiva, la sua vita dannata. E la sua poesia: una bomba a orologeria attivata da un adolescente strafottente e talentuoso.
Rimbaud era un ragazzo prodigio in un’epoca in cui non esisteva l’adolescenza come categoria culturale.
A quindici anni scriveva versi che avrebbero cambiato per sempre la poesia occidentale, e a diciassette sbeffeggiava i poeti borghesi, li superava, li sbriciolava. Jamie, il protagonista della serie Adolescence, di cui da settimane si parla ovunque sui social, è invece un adolescente di un’epoca in cui si comincia a essere teen-ager a tredici anni e si finisce verso i trenta.
Si assomigliano? No, direi di no. Uno è un personaggio fiction, l’altro un uomo realmente esistito; uno recita, l’altro ha scritto La nave dei folli. Entrambi però sono la Gioventù, di ieri o di oggi poco importa. La gioventù è sempre una brutta bestia: imprevedibile, violenta, inconsapevole.
Se Rimbaud fosse nato nel 2007 anziché nel 1854, forse avrebbe avuto un canale TikTok in cui avrebbe declamato Une saison en enfer a voce bassa con un eyeliner sbavato.
Forse avrebbe scritto nei commenti “A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu” fra un meme buffo e un video di qualche challange. Forse la sua colonna sonora sarebbe stata lo-fi: quella musica ovattata, graffiata e malinconica che accompagna le notti insonni degli studenti delle superiori, e forse avrebbe riempito le chat di classe di emoji incomprensibili. Forse. O forse no.
Arthur Rimbaud non ha avuto un’adolescenza perché questo “prodotto” culturale è arrivato dopo, con la Nutella e lo street-style, la tv e le discoteche. Oggi invece impazza nelle serie tv. Ma alla fine dell’Ottocento a vent’anni eri già un uomo e se per caso eri anche il poeta più interessante della scena letteraria di Parigi, potevi ragionevolmente smettere di scrivere.
Sì, Adolescence è una gran bella serie: scritta con cura, girata divinamente (anche se “abbasta” con l’elogio perpetuo al piano-sequenza), interpretata con una verità rara.
Ma se vogliamo davvero soffrire come un adolescente, se vogliamo sentire quel gelo nella pancia, quel fuoco negli occhi, quel senso di non appartenere mai del tutto a nulla e a nessuno, in primis alla propria famiglia, allora dobbiamo tornare ai libri.
Perché solo la letteratura sa davvero stare nell’adolescenza. Senza montaggio. Senza colonna sonora. Senza stacchi. Solo parola nuda e ribelle. Come Rimbaud.
L’adolescente – lo diceva anche Pasolini, che qualcosa ne capiva – è sempre una figura politica. È l’indicatore del tempo, la febbre che misura la malattia di un’epoca. Rimbaud era la febbre del secondo Ottocento, Jamie è quella del nostro presente disorientato, digitale, confuso tra ansia, desiderio di fuga e insofferenza alla frustrazione.
Cambia la lingua, cambiano i canali, ma la sostanza resta: l’adolescente ci mostra chi siamo, chi non vogliamo più essere, e forse anche chi potremmo diventare.
In fondo, ogni generazione ha il suo Rimbaud. O almeno ci prova.
Fonte immagine copertina: meisterdrucke.it
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