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Molly Intervista Elvio Carrieri (io ve lo avevo detto!)

  • Immagine del redattore: Anna di Cagno
    Anna di Cagno
  • 28 apr
  • Tempo di lettura: 5 min

Alessandro Calascibetta
Elvio Carrieri

Quando un anno fa ho letto Poveri a noi (Ventanas Editore), romanzo d’esordio di Elvio Carrieri, ho pensato: finalmente.


Finalmente una voce che non imita. Che non cerca il consenso. Che non camuffa la complessità in retorica da tweet.


Una voce giovane (sì, è nato nel 2004, sì, ha vent’anni), ma antica nell’ossessione per le parole, nei dilemmi tra arte e vita, nel desiderio di dire l’indicibile. E una scrittura che osa il dialetto — non per folclore, non per fare la strizzatina d’occhio, non per caratterizzare — ma per esplorare, come diceva Wittgenstein,


PAN (Poveri a noi) è un romanzo che non si fa incasellare. 

Non è di genere, come il mercato editoriale predilige. Non è una storia autobiografica, non è un romanzo di redenzione, non è un manifesto GenZ, e non è nemmeno un “romanzo di formazione”, perché Libero, il protagonista, non vuole farsi formare da nessuno. E nemmeno il suo autore.


Ma mentre lo leggevo, io pensavo a Thomas Mann e al suo Tonio Kröger.

Tonio si chiede: si può essere artisti e borghesi allo stesso tempo?

Libero si chiede: come faccio a gestire “quella cosa indecente che si fa chiamare letteratura?” (cit)


Nel primo c’è una poesia (i Giacinti di Storm) che ci mostra l’inquietudine del protagonista.

Nel secondo c’è La Ginestra di Leopardi, che compare tra le sbarre del carcere dove Libero prova a insegnare Italiano.


Nel primo c’è una donna che spiega un giovane uomo a sé stesso.

Nel secondo una psicologa che lo fa “più forzuto” (cit).


E in entrambi ci sono gli altri.

I “biondi con gli occhi azzurri” per Mann, gli adeguati, quelli che sanno come si deve essere e vivere.

I “Trmon” per Carrieri, gli altri, quelli che stanno fuori dal cerchio, quelli che sentono troppo e che aprono il romanzo con un titolo che è già una sfida.


E c’è una città. Lubecca per Mann, Bari per Carrieri. 

Non come sfondo, ma come luogo e corpo di un conflitto più ampio.


Poveri a noi è letteratura.

Quella vera. Perché non ti consola, non ti fa pistolotti, ma ti sveglia. Perché non cerca buoni sentimenti, ma ti lascia addosso la giusta quantità di disagio e frasi che vuoi rileggere, sottolineare, appuntarti da qualche parte. Perché ti fanno pensare.

E allora mi sono detta: quindi a vent’anni, oggi, si possono ancora vivere gli stessi tormenti di Thomas Mann? Evviva!


Per questo, e perché io ve l’avevo detto un anno fa e adoro avere ragione, ho chiesto un’intervista a Elvio Carrieri.

Ed è tutta da leggere. Ultima riga compresa.


Cosa ti fa più effetto: essere nella fatidica dozzina con il primo romanzo che hai scritto o essere il più giovane candidato della storia del Premio Strega?

Niente ha ancora avuto il tempo di farmi effetto perché la sindrome dell’impostore mi fa vivere nell’attesa che qualcuno venga a smentire i suddetti titoli. Quindi per ora mi terrei buono il solo effetto (negativo, perché irreversibile) di vedere le parole stampate su carta. È già qualcosa.


Tu non hai frequentato scuole di scrittura, ma scrivi poesia e fai musica da quando avevi quindici anni. Sono loro che ti hanno insegnato a trovare la tua Voce letteraria?

L’ho trovata? La sto cercando. Ma la musica mi insegna a scrivere musica e la poesia mi insegna a scrivere poesia. Sono cose talmente diverse, autonome, le voglio separate al massimo grado, la tendenza a unire tutto come se fossimo nel VI secolo a.C. è una scusa per essere contemporaneamente pessimi poeti e pessimi musicisti (ma c’è chi lo sa fare con eleganza: vedi Vittorino Curci). Daniela Marcheschi mi fece ascoltare passi di Wagner per farmi notare quanto fosse evidente la sua musica in Carducci. Ma credo di non essere ancora pronto.


Beatles o Rolling Stones?

Rolling Stones ma senza pensarci neanche un millisecondo. 

(#metoo)


Hegel o Nietzsche?

Hegel ma questa volta mi dispiace. 

(Pure a me!)


Leopardi o Manzoni?

Leopardi ma rileggerò Manzoni a luglio.

(tipica lettura da ombrellone ;-)


Trama o scrittura?

Stile. (Ci avrei scommesso!)


In PAN usi spesso il dialetto della tua città eppure, leggendoti, quasi non si sente. Come hai fatto a non cadere nell’effetto “instagram”? Ormai è il dialetto più virale…

Mi sono preso a pedate ogni volta che diventavo didascalico e ogni volta che usavo il dialetto come vezzo e non come lingua necessaria per dire ciò che dovevo dire. Così si rende il dialetto una lingua e non un simpatico colore: rendendolo necessario e levandogli le noticine di traduzione rassicuranti.


Come hai scritto PAN: dove, quando, con chi, in quanto tempo… ?

Su una poltrona in camera mia nell’unica vera casa che ho avuto e in cui ora non abito più (ma un passo in hotel, uno in treno e uno in macchina), a luglio 2023, da solo col mio gatto, in otto caldi giorni partendo la notte stessa dell’orale di maturità.


Libero, il protagonista, ha dieci anni di più di te, è già laureato e insegna in un carcere.

È il tuo modo per dirci che non ami i romanzi autobiografici così in voga oggi?

Non li amo, è vero. Ma non vuol dire che non mi sia frantumato in altri luoghi e soprattutto in altri personaggi. Spero infatti di somigliare a Libero il meno possibile.


Dal liceo al mondo dell’editoria e adesso alla serie A nello squadrone della dozzina Strega… Che idea ti sei fatto?

Che serve culo ma soprattutto stamina. La stamina mi ha fatto scrivere Poveri. E forse un po’ di bravura. Tempo fa ti avrei risposto serve un agente, un enorme ufficio stampa, un bravo SMM, ma io non ho nessuno dei tre.


A breve uscirà in Francia la prima traduzione di PAN. Se potessi scegliere tu una seconda edizione straniera, in che lingua ti piacerebbe essere tradotto?

In tedesco perché i tedeschi leggono tanto ma soprattutto perché è una lingua che mi fa un effetto straniante spaventoso.


Poesia inaffondabile

Due: in italiano L’infinito e in francese A une passante. Perché le potrei recitare con pistola alla tempia senza sudare.


Romanzo inaffondabile

Il Pasticciaccio di Gadda, perché è il romanzo ad affondare te.


Canzone inaffondabile

Firth of Fifth, dei Genesis. Una persona recentemente mi ha chiesto quale fosse la canzone più bella in assoluto. Tenendo a mente che la forma canzone pop è ben codificata e tutto ciò che supera i tre minuti teoricamente ne è escluso, estendendo il significato di canzone a forma basata su una voce e una melodia sia pure in assenza di ritornello, possibilmente entro limiti di tempo ragionevoli, diciamo un massimo di dieci minuti, non esiste una canzone più bella di Firth of Fifth. Mi pare evidente.


Una curiosità: hai letto Tonio Kröger?

Ho letto Morte a Venezia, in cuor mio aspetto di padroneggiare un poco di tedesco per leggere un secondo libro di Mann. Ma probabilmente finirò a leggerlo in una traduzione che mi consiglierai tu.


NB: Questa è la prova che “quella cosa indecente che si fa chiamare letteratura” alle volte ci abita senza che noi neanche lo sappiamo. L’ha detto Federico Fellini, quindi è vero.

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