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DON DRAPER: il figlio prediletto di Gatsby

  • Immagine del redattore: Anna di Cagno
    Anna di Cagno
  • 4 lug
  • Tempo di lettura: 4 min


L’ho già detto mille volte e lo ripeterò finché avrò voce: i grandi romanzi non muoiono mai. Cambiano pelle, attraversano i generi, si reincarnano nei modi più imprevedibili. E di più, si nascondono in luoghi a volte apparentemente lontani dalla grande letteratura. Come le serie tv. 

Recentemente ho riletto Il Grande Gatsby (e ovviamente ci ho fatto un podcast) e giorni fa ho rivisto a mo’ di maratona Mad Men (sì, rileggo, riguardo film e serie tv all’occorrenza) e mentre Don Draper osservava in silenzio l’orizzonte fumando l’ennesima sigaretta, l’illuminazione: ma… ma sto pezzo di bisteccone è Jay Gatsby! Solo in versione Madison Avenue.


Sì, Don Draper è Jay Gatsby. Punto. Anzi, punto e un bicchiere di Whiskey.

Due uomini bellissimi, affascinanti, sfuggenti. 

Due creature mitologiche nate dal desiderio e forgiate nell’ombra. 


Entrambi si sono costruiti da zero: Gatsby da James Gatz, povero ragazzo del Midwest, Don da Dick Whitman, figlio illegittimo di un’agricoltore violento.


Entrambi hanno cambiato nome, identità, passato. Hanno cancellato le origini, riscritto la propria biografia come fosse uno spot pubblicitario.


Entrambi sono ossessionati da un sogno: Daisy per Gatsby, Betty e poi Megan, e in generale le donne per Don. 


Ma più di ogni cosa, entrambi sono innamorati dell’Idea di sé. Di quella proiezione luminosa e impeccabile che vogliono restituire al mondo. E che il mondo in cui vivono consente loro d’inventare. Perché è questo il Sogno Americano: puoi inventarti un lavoro ma anche un’identità.

Gatsby guarda la luce verde sull’altra riva di West Egg: una promessa, un miraggio, un altrove. Don guarda gli spot pubblicitari come se potessero salvarlo dal passato.


Gatsby si inventa un vissuto di ricchezza, Oxford, feste leggendarie. Don cancella un’infanzia di povertà, guerra, abbandono. Ma entrambi si aggrappano a un sogno più grande di loro, e lo fanno con la struggente eleganza di chi sa di essere sempre un passo indietro rispetto alla felicità.


In Mad Men, Don Draper incarna l’America che si vende e si reinventa. L’America dello specchio e del vuoto. Come Gatsby, è l’uomo che ha tutto ma non dorme la notte. Sa incantare gli altri, ma non riesce a incantare sé stesso. E questo lo rende, insieme, eroico e tragico.


Gatsby muore per mano dell’illusione che ha costruito. Don Draper non muore, ma implode. Sparisce, scivola, si reinventa ancora una volta. Eppure, ogni volta che rivediamo Mad Men, è come se leggessimo di nuovo Il Grande Gatsby. Perché l’archetipo ha colpito ancora.

Jay Gatsby non è solo Jay Gatsby. È il principio di qualcosa. È l’inizio di una stirpe di personaggi che la letteratura e l’audiovisivo hanno continuato a generare, come un fermento vivo. E sì, perché gli archetipi non si moltiplicano per clonazione, ma per fermentazione. Si trasformano per contatto. E infatti la cultura pop è piena di Gatsby in incognito.


Tony Montana, ad esempio, il protagonista di Scarface.


Anche lui viene dal nulla. Anche lui cambia pelle, diventa il re di un impero (di cocaina invece che di champagne, ma la sostanza non cambia). Anche lui vive per un sogno americano mutato in incubo (sì, d’accordo, in Tony c’è anche tanto Shakespeare da Macbeth a Riccardo III, ma questo è un altro articolo alla Molly).


In Tony l’invenzione di sé si fa carne, pistola, poltrone in pelle con le sue inziali, striscia di coca. E non smette mai di raccontarci la stessa, potentissima storia: quella di un uomo che si reinventa fino a smarrirsi.


E se Gatsby nelle trasposizioni cinematografiche ha il volto perfetto di Robert Redford (o di DiCaprio), e su Netflix si rincarna in Don Draper tramite il fighissimo Jon Hamm, in musica prende le sembianze di David Bowie e delle sue tante identità: da Ziggy Stardust a The Thin White Duke, ogni personaggio è un frammento di un sé inafferrabile, in cerca d’amore e di eternità.


O di The Weeknd, quando canta “I ran out of tears when I was eighteen”. E che dire di Bruce Springsteen, quando canta “Tramps like us, baby we were born to run”? Non è forse anche lui un figlio bastardo di Gatsby, cresciuto nelle strade del New Jersey ma con la testa piena di promesse e America?


Ma in principio c’è sempre la letteratura, perché solo lei può inventare l’uomo, un po’ come Dio insomma… I grandi personaggi resistono perché parlano di noi. Di chi vogliamo essere. Di chi fingiamo di essere. Di chi ci illudiamo di diventare. L’archetipo funziona così: vive sottopelle, si muove tra le righe, e quando meno te l’aspetti riemerge. Cambia nome, ma non volto. Cambia epoca, ma non ossessione.


Don Draper è Gatsby perché entrambi ci dicono che l’identità è una finzione necessaria.


Che la felicità è una costruzione pubblicitaria. Che dietro l’uomo perfetto si nasconde un bambino che ha imparato a mentire per sopravvivere.

Molly lo sa. E in estate, tra un ghiacciolo alla menta e una citazione vintage, li guarda entrambi e sorride. L’archetipo ha colpito ancora. E noi, lettori e spettatori, non possiamo fare a meno di innamorarci. Di nuovo. Per sempre.


Fonte immagine copertina: literarytraveler.com

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