LO SQUALO: il mostro americano
- Anna di Cagno
- 2 giorni fa
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Quando uscì nelle sale il 20 giugno del 1975, Lo squalo (Jaws) non fu solo un film. Fu un trauma collettivo. Una scarica di paura primordiale che trasformò per sempre l’estate, il mare, oltre che il concetto stesso di blockbuster.
Quel mostro che emergeva all’improvviso dalle acque non veniva solo dalle profondità dell’oceano, ma da un abisso ben più oscuro: quello dell’anima americana.
A cinquant’anni dalla sua uscita, Lo squalo è ancora vivo. Nuota, silenzioso e affamato, sotto la superficie dell’America Felix. Ma soprattutto: morde ancora e sparge sangue e ansia ovunque.
È un film sull’orrore, sì, ma non su quello che viene da fuori. Perché lo squalo, oggi come allora, è sotto. Si annuncia con una pinna (un ciuffo?) e sbrana senza preavviso.
Come sempre tutto comincia con un romanzo.
Peter Benchley, giornalista e autore, pubblica nel 1974 Jaws, ispirandosi a una serie di attacchi di squali realmente avvenuti nel New Jersey nel 1916. Il libro diventa un bestseller, ma è con l’adattamento cinematografico che la creatura prende forma mitica. Universal Pictures affida la regia a un giovane Steven Spielberg: 27 anni, un solo film all’attivo. Quello che ne viene fuori è un caso unico nella storia del cinema.
Girato in condizioni infernali – lo squalo meccanico non funzionava, le riprese durarono mesi – Jaws si trasforma in un miracolo narrativo: ritmo serrato, montaggio impeccabile, tensione crescente, una colonna sonora diventata archetipo (quel “Dun-dun, dun-dun…” che oggi fa parte del nostro DNA culturale).
Il pubblico impazzisce. Lo squalo incassa oltre 470 milioni di dollari. È il primo “film-evento estivo”, quello che inaugura l’era del blockbuster prima ancora di Star Wars.
Ma non è solo un trionfo commerciale. È una crepa. Un'incrinatura nello specchio dorato della società americana.
Perché il genere “revenge animal” l’aveva inventato Hitchcock con Uccelli, ma questo è un capolavoro psicoanalitico, Lo squalo è invece un film politico, impegnato.
Amity è una tranquilla località di mare, popolata di belle famiglie americane alla ricerca di svago e vacanze in cui la verità non può essere detta. Tutti negano l’evidenza: il sindaco, i commercianti, la gente del posto. Perché sarebbe un danno economico, perché come dirà qualche anno dopo Gordon Gekko “money never sleeps”.
La metafora è servita: in un’America reduce dalla guerra in Vietnam, dal Watergate e dalla crisi petrolifera, Lo squalo diventa il simbolo di un pericolo interno, rimosso, ma pronto a esplodere.
La bestia assetata di sangue è il ritorno del rimosso, è l’ombra dell’America stessa, quella che vive della negazione del pericolo pur di non mettere in discussione sé stessa.
Il sindaco di Amity, con il suo completo a righe e la retorica del “tutto sotto controllo”, è il volto del potere che preferisce sacrificare vite umane piuttosto che ammettere il fallimento del sistema. Le spiagge restano aperte. E il mostro colpisce ancora.
C’è un momento, nel cuore del film, che va oltre il thriller. È il monologo del Capitano Quint, interpretato da Robert Shaw. Una scena nuda, quasi teatrale.
Quint racconta la storia vera dell’USS Indianapolis, l’incrociatore affondato nel 1945 dopo aver trasportato la bomba atomica. Dei 1.196 uomini a bordo, centinaia furono divorati dagli squali. Nessuno li venne a salvare per giorni.
“Ero lì,” dice Quint, “e vidi i miei compagni sparire uno a uno”. È una confessione, ma anche un’accusa. Un atto politico. Il vero orrore non è il mostro, è l’indifferenza dell’autorità, il silenzio dell’istituzione. Quint è un reduce della guerra, ma soprattutto del tradimento del potere. Lo squalo, per lui, non è solo un animale: è il ricordo della brutalità nascosta sotto la bandiera più iconica del mondo.
Nel Leviatano Thomas Hobbes descrive lo Stato come una creatura marina gigantesca, nata per garantire ordine e sicurezza. Ma cosa accade quando quella creatura si risveglia? Quando il potere non protegge più, ma divora?
Lo squalo è questo: il sogno americano che si trasforma in incubo. L’ordine che si fa mostro.
L’animale non ha motivazioni, non è vendicativo, morde perché è nato per mordere. Esattamente come il potere non è stato inventato da nessuno, ma tutti l’hanno alimentato.
Essendo un film di Spielberg il messaggio non può essere nichilista. Il finale, con il capitano Brody che affronta la bestia da solo, ci parla ancora di umanità, coraggio, limite. E la vittoria non è definitiva, non può esserlo.
Cinquant’anni dopo, ci chiediamo: chi è oggi lo squalo?
Certo, complice una pinna gialla sulla testa, è istintivo pensare a Donald Trump. Al suo potere emerso dalle viscere del risentimento collettivo, che si nutre di paure e urla slogan sulla spiaggia mentre l’acqua si tinge di sangue. Ma non solo.
Oggi lo squalo è anche altrove. È la macchina dei social che divora la nostra attenzione. È il sistema che normalizza l’abuso, l’indifferenza, la violenza contro i più deboli. È la disinformazione che nuota libera, invisibile, pronta a colpire.
La vera domanda è: le spiagge sono ancora aperte?
Fonte immagine copertina: illibraio.it
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