LA BONTÀ: UN ATTO DI INTELLIGENZA
- Anna di Cagno

- 11 ore fa
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Dicembre è il mese dei buoni sentimenti.
Tutto profuma di cannella, cioccolato e buone intenzioni. Le città sberluscicano di romantiche lucine e i negozi diffondono musica e l’immancabile All I want for Christmas…
Quale migliore occasione per domandarsi: ma cosa significa davvero essere buoni? E soprattutto: chi può permetterselo?
Partiamo da un’idea che non troverà tutti d’accordo: la bontà non è una dote naturale. Non è nel DNA, non è un istinto.
La bontà è una funzione dell’intelligenza.
Un essere umano diventa buono quando elabora un concetto di bene. E i concetti sono frutti dell’esercizio del pensiero. Non sono emozioni, sono una conquista. La bestia, infatti, non è buona né cattiva: è inconsapevole. L’uomo, invece, può scegliere. E questa possibilità si attiva solo con il pensiero, con la capacità di vedere l’altro e uscire da sé stessi.
La bontà, insomma, non è una questione di cuore ma di testa.
Per questo uno stupido non può essere buono.
Può essere innocuo, spesso molto divertente, ma fateci caso, solo quando la sorte gli soffia a favore. Se qualcosa lo ostacola, lo frustra o semplicemente lo mette alla prova, lo stupido farà la cosa più dannosa. Per gli altri e anche per sé.
Niente di nuovo, l’ha già detto – e molto meglio- Carlo Cipolla storico dell’economia, docente stimato in tutto il mondo e autore di decisivi saggi sul tema e della messa a punto delle celebri 5 leggi sulla stupidità da cui derivano 4 categorie umane:
Gli intelligenti: procurano vantaggio a sé e agli altri.
Gli sprovveduti: avvantaggiano agli altri e danneggiano sé stessi
I banditi: danneggiano gli altri per avvantaggiare sé stessi
Gli stupidi: danneggiano sé stessi e gli altri.
Da ciò ne consegue l’ultima e definitiva legge che così recita: “La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista”.
E quindi non potrà mai essere buona.
La bontà è una virtù dinamica: ha luci, ombre, movimento interno. È faticosa. La stupidità invece è statica, per questo lo stupido è infaticabile.
La letteratura lo sa benissimo. I grandi personaggi buoni non sono mai semplici.
Pensiamo a Jean Valjean nei Miserabili di Victor Hugo. Un ex galeotto che diventa uomo giusto non per redenzione magica, ma per scelta razionale, per lotta interiore, per esercizio di volontà.
O a Atticus Finch, ne Il buio oltre la siepe di Harper Lee: un uomo retto, intelligente, che difende un innocente in un contesto razzista non per eroismo, ma per coerenza etica e rigore morale. Non si fa trascinare dal sentimentalismo, ma agisce perché ha pensato, ha valutato, ha deciso di rischiare.
Oppure a Pierre Bezuchov, in Guerra e pace: l’unico che attraversa il caos della guerra e ne esce trasformato, pronto a vivere per gli altri non perché sia mite, ma perché ha capito, ha pensato, ha cercato un senso. Non a caso, è il personaggio che più legge, studia, discute, si interroga.
E ancora: chi può dimenticare Il principe Myškin, l’idiota dostoevskiano? Lui, che nella sua presunta “bontà naturale”, è in realtà un personaggio tragico, inadatto al mondo, incapace di agire perché privo di quella forza intellettuale che serve a rendere il bene efficace. Myškin è buono, ma non salva nessuno. E la sua bontà, pur sincera, resta sterile, perché non sa farsi azione.
Ma non ci sono solo uomini in questa galleria. Anche tra le protagoniste dei grandi romanzi ci sono figure che confermano la nostra tesi: la bontà richiede intelligenza, lucidità, coraggio morale.
Elizabeth Bennet, in Orgoglio e pregiudizio, non è buona nel senso tradizionale del termine. Non è mansueta, non è accomodante. È buona perché è intelligente. Perché sa leggere il mondo, le persone, sé stessa. Perché ha il coraggio di cambiare idea, di correggersi, di perdonare. La sua bontà non è arrendevole, è lucida.
Hester Prynne, in La lettera scarlatta, è un altro esempio: isolata, giudicata, emarginata, non si ribella con rabbia cieca, ma costruisce una nuova etica, fondata sulla comprensione. La sua bontà è visionaria, è la risposta lucida e adulta alla crudeltà sociale.
E infine Isabel Archer, protagonista di Ritratto di signora di Henry James. Giovane, colta, indipendente, piena di ideali — cade vittima della propria fiducia, ma non smette mai di interrogarsi. E quando la vita la mette davanti al fallimento, non chiude gli occhi. Pensa, soffre, ma sceglie. E quella scelta - dolorosa, lucida, libera - è l’essenza stessa di una bontà che non ha nulla di ingenuo.
Essere buoni è un’arte.
E come tutte le arti, richiede studio, disciplina, consapevolezza. Richiede soprattutto fatica, perché la bontà vera non è mai compiacente. Sa dire dei no. Sa vedere i paradossi. Sa reggere la complessità senza perdere l’orientamento.
La bontà non è un default. È un progetto, una costruzione architettonica del pensiero.
Per questo dicembre, tra un panettone e un augurio, Molly Brown invita a diffidare dei “buoni” di default. Dei buonisti da presepe, dei mansueti inconsapevoli, dei beati di spirito e poveri di pensiero.
La vera bontà è inquieta. Ed è sempre, profondamente, intelligente.
E, come tutti i grandi gesti di intelligenza, ha bisogno di tempo, attenzione e dubbi.
Fonte immagine copertina: www.ilfoglio.it

















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