Molly Intervista Michele Mozzati
Con Gino Vignali è diventato addirittura un brand: Gino&Michele. Che vuole dire Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano, Smemoranda, ma prima ancora radio, libri, musica, testi di canzoni per l’amico Jannacci…
Intervistarlo vuol dire ripercorrere la storia della cultura pop italiana dagli anni Settanta a oggi. Una missione praticamente impossibile. Anche perché con Michele Mozzati si comincia a parlare e non ci si riesce più a fermare e ogni due per tre ti ritrovi a domandargli: «Ma hai fatto anche questo?» Quella che segue è perciò una chiacchierata-destrutturata, un “anda e rianda” come si dice a Milano tra un patrimonio infinito di ricordi.
Il tuo primo libro…
È stato un libro collettivo, una poesia scritta in una scuola privata di cui non dirò il nome. I miei facevano parte di quegli educatori pagati dallo stato che avevano così poca stima del loro ambiente di lavoro che mettevano i figli nelle scuole private! Credo fosse in prima o seconda liceo classico, diciamo il ’67, quindi in piena rivoluzione di costumi. La poesia diceva che mio padre era vecchio e quindi aveva abbandonato ormai ogni velleità di tipo sessuale. Si incazzò molto, e fu il primo insuccesso della mia vita.
E il primo successo?
Dieci anni dopo, nel 1977 con Gino. Ancora un libro, nato di rimbalzo a una trasmissione di grosso successo di Radio Popolare. Un programma anomalo per la più grande radio di controinformazione; si chiamava Passati col rosso e ospitava una rubrica, un finto quiz che s’intitolava Do you remember ’68? ovviamente in chiave satirica e soprattutto autoironica, perché prendevamo in giro da sinistra la sinistra. L’editore della Savelli ci chiamò e ci chiese di fare un libro ispirato al programma. Noi gli dicemmo: «Guarda che ci conoscono solo a Milano»; lui ci rispose: «Mi fido». E così uscì Rosso un cuore in petto ci è fiorito, un rifacimento del libro Cuore in chiave però patetico-sinistrista. E vendette 30.000 copie, quasi solo a Milano, e soprattutto vinse il premio Forte dei Marmi come opera prima della satira politica.
E poi…
Da lì abbiamo incominciato a scrivere diciamo una quindicina di libri, molti di satira, poi ci furono le raccolte delle formiche e poi approdammo lentamente alla narrativa con un romanzo che si intitolava Neppure un rigo in cronaca ed era ambientato a Milano e raccontato con un noi narrante, come se io e Gino fossimo stati bambini nel 1958, ma noi in realtà ci siamo conosciuti molto dopo.
E invece il primo libro che hai letto e che ti ha cambiato?
Ah che bella domanda! Non ci ho mai pensato bene, non credo di saper rispondere, il primo libro è difficile. Da bambino mi terrorizzava la fiaba di Hänsel e Gretel, ma la leggevo continuamente, per quel meccanismo che poi ho capito, quando ho fatto il redattore di casa editrice di psicopedagogia (anche, ndr) e cioè che per raggiungere l’età adulta devi passare attraverso una serie di peripezie terribili. E devi avere paura.
Ma c’è un libro che ti ha fatto pensare: se lo avessi letto prima mi avrebbe fatto la differenza?
Pavese, le poesie e i romanzi. Ancora oggi sono faticosi, sono duri, no? E Hemingway, che ho amato tantissimo perché era una roba molto “terona” si direbbe in milanese, tutto sangue, guerra, amore, passioni devastanti… Cose così lontane dalla mia realtà.
Tu sei quel tipo di lettore che i libri li rilegge?
Stoner l’ho letto dieci volte. Perché per me è – ne discuto spesso con i miei amici– uno dei pochi libri maschili scritti in questi decenni; lo sfogo di un uomo, la summa di quello che è l’uomo attraverso i decenni, con tutte le sue fragilità e anche le sue cattiverie. Un altro libro che amo molto e ho riletto più volte è Eureka Street di Robert McLiam Wilson. Lo paragono a Cent’anni di solitudine, e vorrei che fosse per i ventenni di oggi quello che García Márquez è stato per la mia generazione. Un’incredibile storia di formazione. In questo caso di un gruppo di ragazzi durante la guerra civile dell’Irlanda. E ha uno degli incipit più belli della letteratura contemporanea: “Tutte le storie sono storie d’amore”, la sintesi totale di quello che è la narrativa.
Qual è il tuo film della vita?
Qui c’è un problema grossissimo, forse è un mio limite. Io sono convinto che tutte le cose che hai citato, hanno vissuto un ventennio unico, irriproducibile: Sessanta-Ottanta. Lì si è consumato tutto: musica, scrittura, cinema, teatro. La mia generazione ha avuto il culo di aver vissuto quegli anni in presa diretta. Capisci che è difficile per noi… Comunque, sul cinema vado a periodi. Ho dei film che considero capolavori assoluti come Sabrina, che è di un’epoca precedente alla mia, e registi a cui torno sempre, come Ettore Scola, e un film che riguardo una volta all’anno: Romanzo popolare di Mario Monicelli.
E la musica?
Io sono un fanatico della musica italiana d’autore. Ho lavorato tanti anni anche con il club Tenco e ho scritto testi per Enzo Jannacci che è stato un amico, oltre che un personaggio unico nel nostro panorama culturale. E poi c’è Gaber. Io se fossi Dio l’ho sentita in anteprima una sera casa mia. Come posso guardare altrove?
Ma avevate la percezione di che cosa sareste stati per chi vi ascoltava mentre facevate queste cose?
Non credo. In certi momenti ho capito che stavo attraversando un periodo della storia di Milano, dell’Italia, non dico da protagonista ma sicuramente da comprimario di personalità straordinarie. Negli anni siamo diventati più consapevoli, penso a quando abbiamo scritto gli spettacoli più importanti di Paolo Rossi o quando abbiamo cominciato a capire che Smemoranda andava al di là di un’agenda e trasmetteva dei valori ai ragazzi. E Zelig o Emilio che sì, erano programmi leggeri, nazional popolari, ma non beceri o volgari. E quando il successo ti premia perché hai saputo cogliere un bisogno che c’è in giro, allora lo fai tuo, quel bisogno. E anche se guadagni e fai cose bellissime, da privilegiato, resti sempre con i piedi ben dentro il fango della vita quotidiana.
Ma per fare certe cose…
E sì, ci vuole orecchio! È passata per una canzonetta sbarazzina, ma in realtà racconta la storia di un sassofonista che a un certo punto se ne va per i cazzi suoi mentre la base procede, lui va da una parte, la ritmica dall’altra. A questo punto si accorge che non ha più senso suonare perché ha perso la base, non ha più “il pacco immerso dentro il secchio”. Il grande dibattito della sinistra italiana! Gramsci che diceva non dobbiamo abbandonare il popolo, dobbiamo avere il pacco immerso dentro al secchio, provare a dargli gli strumenti per crescere. Ma devi starci dentro, al popolo. Le avanguardie che si beano di essere avanguardie, i sassofoni che suonano da soli, presto si perdono.
Parliamo di sport…
Sì, sempre! Sportivo è chi lo pratica e chi lo guarda. Certo se guardi una cosa che pratichi hai una chiave in più. Io ho giocato sempre a pallone, e grazie al calcio ho imparato a lavorare in squadra.
Come si può essere fedeli per tutta la vita a un’unica squadra?
Ho sempre pensato che la grandezza degli uomini sia nel fatto di poter cambiare idea, ma l’unica cosa che non ammette il cambiamento d’idee è la squadra. Le donne che cambiano squadra perché il fidanzato cambia squadra o gli uomini che cambiano bandierone a seconda dell’azienda in cui lavorano per me non sono degli sportivi. Non capiscono la vera essenza del tifo che è l’appartenenza a prescindere, oltre ogni logica. Poi all’interno di questa follia collettiva, ci sono diversi stili che spesso appartengono a delle squadre specifiche.
Esiste un’identità calcistica?
Sì. L’interista, per esempio, è uno che è sempre incazzato, ipercritico. Ha molti dubbi sull’onestà del gioco del calcio in generale e solleva questioni filosofiche. Il milanista è più pacioccone, si pone meno domande e vota Lega. È il tassista di Milano. L’interista è l’idraulico.
Hai conosciuto tanti campioni. Chi è stato il più grande?
Per me ce ne sono stati tre. Uno simpatico e coglione, Maradona. Uno non intellettuale ma molto intellettuale, Roby Baggio. E uno formidabile in campo e schivo di persona, Ronaldo il Fenomeno. L’unico calciatore che vedevo dal vivo e poi per capire cosa avevo visto dovevo rivedere a casa la stessa azione al rallentatore, tanto era veloce con le finte.
Chi è la persona più incredibile che hai conosciuto?
Urca miseria, incredibile? Dovrei pensarci molto... Quella che ha segnato di più la mia vita direi Oreste Del Buono. Lui mi ha convinto che potevamo farcela con le nostre gambe e potevamo fare questo lavoro da professionisti. E Beppe Recchia, il regista televisivo, e Maurizio Chierici, l’inviato del Corriere.
Tu sei un appassionato di Hopper, gli hai anche dedicato un’antologia di racconti. Perché lui?
Perché è il pittore più cinematografico che esista; perché tutte le volte che vedi un suo quadro pensi che sia accaduto qualcosa un secondo prima e che debba accadere qualcosa un secondo dopo. E poi perché era un “cane sciolto”, odiava quando gli dicevano tu devi celebrare l’America perché sei famoso; non gliene fregava niente, lui voleva raccontare pezzi di vita fermandoli dov’erano, nella loro apparente banalità. Lui era uno che litigava con la moglie e faceva una vita triste e piatta.
Un po’ come Stoner?
Lui è Stoner, per me. Ha avuto un rapporto con la moglie che ognuno di noi dovrebbe non solo conoscere, ma studiare perché è la soluzione alla vita di coppia.
La soluzione o l’assoluzione?
La soluzione probabile. Lei era una rompicoglioni pazzesca, però a suo modo simpatica immagino. Parlava sempre e rispondeva al posto suo durante le interviste. Era una sua allieva, ma lui la considerava ciuccia. Si amarono tantissimo e si odiarono tantissimo, così come deve essere in un buon rapporto di coppia. E non si separarono mai. Lei raccontava che lui la menava, e le impedì di prendere la patente “perché se va in giro da sola, mi ruba i paesaggi”. Lei era gelosa e non vuole modelle per casa, e infatti nei suoi quadri c’è sempre lei; ovunque, bionda, bruna, rossa… Lui la dipingeva nelle situazioni più imbarazzanti e lei si offendeva, allora lui minacciava di prendere una modella… Insomma, una vita così.
E adesso mi fermo. Non vorrei essere nei tuoi panni, quando sbobinerai questa intervista.
Io invece sì. Grazie.
Fonte immagine: www.spazio50.org
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